Le variabili sono molte, di carattere normativo e regolatorio e, soprattutto, organizzativo e funzionale. Il tema del lavoro flessibile, dallo scorso marzo in avanti, è diventato un tema di strettissima attualità, per quanto oggetto di discussione in ambito aziendale da anni. Delle molte interpretazioni lette e registrate in questi mesi sul fenomeno, c’è probabilmente un aspetto su cui tutti concordano senza compromessi: nella maggioranza dei casi si è trattato – e si tratta tutt’ora – di lavoro da remoto (sostanzialmente a casa del dipendente/manager) e non di smart working nell’accezione più ampia di questo concetto.
La riflessione è parte integrante dei percorsi di approfondimento dell’Osservatorio Copernico, una delle principali reti di uffici flessibili per freelance, professionisti, startup e aziende in Italia. Che tipo di lavoratori e datori di lavori saremo nell’era post Covid? Ponendosi questo interrogativo, gli esperti della società milanese hanno messo innanzitutto l’accento su due fattori.
Il primo: la semplificazione legislativa per l’accesso allo smart working ha sicuramente suggerito una via più snella per regolare i rapporti di lavoro in futuro. Il secondo: non si potrà più tornare a come si lavorava prima dello scoppio della pandemia e del conseguente lockdown, perché i modelli del passato sono superati e vanno ripensate le modalità di valutazione delle performance lavorative.
Lo smart working, in altre parole, è una materia che va per prima cosa capita a fondo affinché possa mantenere le aspettative che si porta dietro, in primis quella di elevare la qualità della vita (professionale e non) delle persone.Cambia, come si dice in modo ricorrente, il modo di lavorare e di relazionarsi ma non cambia fondamentalmente l’approccio virtuoso per affrontare una fase di transizione come questa: per pensare a un nuovo mondo, insomma, bisogna pensare (e pianificare strategicamente) a come vogliamo che sia questo mondo, questo new normal.Una delle prerogative del lavoro a distanza, per esempio, vede l’assenza di orari fissi e presuppone una valutazione dell’operato dei lavoratori in base agli obiettivi e ai risultati raggiunti. Lo smart working, in tal senso, va considerato un elemento che contribuirà anche a responsabilizzare maggiormente il dipendente, creando (si spera) maggiore valore nelle persone e nelle aziende. E per essere un asset realmente di valore dovrà rimanere sempre e comunque (a prescindere dalle forme che prenderà la contrattazione fra lavoratore e azienda) una scelta individuale e non una pratica imposta.
Ci sono inoltre altri “passaggi” obbligati se si vuole considerare il lavoro agile come una risorsa evolutiva per l’impresa, in primis il fatto che possa essere adottato come misura per tagliare i costi o per eliminare i benefit dei lavoratori. La forzata “clausura” di migliaia di professionisti deve portare semmai a riflettere su un welfare differente, ridisegnato in funzione di pratiche lavorative che siano davvero “smart”. Introdurre il lavoro agile può infatti costituire una tappa importante del percorso di innovazione di ogni organizzazione, diventando anche uno stimolo per farla crescere insieme alle sue persone.
E poi c’è la componente digitale. Il lockdown, come fanno notare ancora da Copernico, è stato per molti un’accelerazione sulla strada dell’alfabetizzazione tecnologica, ma è facilmente comprensibile come il viaggio verso una comprensione profonda della materia non sia concluso. Anzi. Il rischio di essere sempre connessi quando si è in smart working, di non staccare mai e di lavorare troppo è uno dei rischi più manifestati e va quindi trovato un equilibrio (anche a livello normativo) che impedisca di trasformare la tecnologia da risorsa a zavorra.
La Fase 3 dell’emergenza, come ha sottolineato anche Pietro Martani, fondatore e Amministratore delegato di Copernico, va affrontata dal punto di vista del lavoro appoggiandosi a un modello maggiormente collaborativo e fondato su una più ampia autonomia e fiducia. Perché solo così facendo si potranno ottenere risultati importanti in termini di efficienza aziendale e benessere per le persone.
Un sondaggio condotto da Nomisma fra aprile e maggio evidenziava come il 56% dei lavoratori in quei mesi operavano in smart working avrebbe voluto continuare a farlo anche post crisi. E dello stesso avviso erano il 32% delle società intervistate. L’opportunità del cambiamento attesa da anni, ha detto ancora Martani, è finalmente arrivata e serve mettere in campo (in azienda) modelli flessibili, agili e condivisi, investendo su innovazione tecnologica e creazione di competenze.